Superlega, lettera aperta di un vecchio tifoso al Capitano Javier Zanetti

Superlega, lettera aperta di un vecchio tifoso al Capitano Javier Zanetti

Superlega, lettera aperta di un vecchio tifoso al Capitano Javier Zanetti


La Superliga nasconde il vero virus che minaccia da tempo il gioco più bello del mondo: il calcio è cambiato da molti anni, occorre trovare dei correttivi, senza però distruggere il giocattolo

Caro Capitano Javier Zanetti, chi le scrive in questa lettera aperta è un vecchio tifoso interista. Sono nato nel 1953 e nel 1958, a cinque anni, mio padre e mia madre mi portarono allo Stadio di San Siro per assistere alla mia prima partita, Inter-Fiorentina. Ricordo che rimasi impressionato, seduto tra i miei genitori su quei freddi gradoni di cemento, settore Distinti, dietro la porta dalla parte opposta all’angolo da cui, a quei tempi, uscivano i giocatori, dal rumore della folla e anche un po’ spaventato dalle grida di giubilo dei miei genitori quando l’Inter segnò un gol. Da allora, per tanti e tanti anni, ho seguito con mio padre fino a che fu in vita e poi da solo, con mio figlio Michele o con amici le vittorie, le sconfitte, le gioie e le delusioni della nostra squadra.


Il mondo è cambiato

Il mondo è cambiato, certo. All’epoca della formazione che qualsiasi interista doc sa recitare a memoria come una giaculatoria, si usciva dallo stadio e si aspettava che arrivassero i nostri beniamini, si formavano capannelli per commentare la partita, si percorreva il lungo viale che costeggiava l’ippodromo fermandosi al chiosco per un panino al salame, la birretta per papà, una Coca Cola per me. Poi a casa, con la filovia, pronti a vedere un tempo di una partita di serie A sperando sempre che fosse quello della tua squadra. Il mattino successivo, a scuola e poi, col passare degli anni al lavoro, le prese in giro con i cugini milanisti, i “nemici” juventini. Ricordo certi lunedì, al Tribunale di Milano, a chiacchierare con l’avvocato Peppino Prisco che immancabilmente fingeva di litigare con il suo collega juventino Chiusano.


Sì, era davvero un altro mondo.

Capitano io non ci sto.

No, Capitano, non ci sto. La Superlega, ad esempio, impedirà di essere orgogliosi per non essere mai stati retrocessi in serie B. Oggi vivo a Roma, e mi piace scherzare col mio direttore lazialissimo o con gli amici romanisti o col mio caro collega e amico napoletano che dopo ogni partita, anche a tarda ora, mi invia un messaggino, cui rispondo sempre, di reciproca presa in giro.

Noi interisti amiamo la sofferenza. Siamo orgogliosi dei nostri successi, felici di poterli rinfacciare agli amici. No, non ci potete togliere il gusto di tutto questo. Capitano, ti chiedo di alzare forte la tua voce, tu che quando fosti espulso un’unica volta nella vita, andasti a stringere la mano all’arbitro tra gli applausi degli avversari.


È il denaro il solo padrone

Non vivo su Marte. Oggi è il denaro che la fa da padrone. Sono i procuratori che dettano le regole di un mercato impazzito, i presidenti di finanziarie, fondi di investimento, multinazionali, che governano un calcio malato. Non credo ai valori etici di chi ha assegnato i mondiali al Qatar, alle scommesse clandestine, agli oligarchi arabi, russi, cinesi, americani, alle tifoserie ultras. So bene che non torneremo mai più su quei gradoni di cemento con il cuscinetto di carta imbottito di paglia o con quello di gomma piuma coi colori sociali, e il chiosco per il panino non c’è più. Però voglio, vogliamo, noi tifosi veri, continuare a soffrire, a sperare, in poche parole a innamorarci delle nostre bandiere. Tu lo sei stato, per tanti anni, riconosciuto anche dagli avversari.


Alza la tua voce Capitano

Alza la tua voce, Capitano. Amo il basket, sport bellissimo, e anche l’hockey su ghiaccio. Ma se guardiamo solo all’America, faremmo un clamoroso errore. Il football, il calcio, è un’altra cosa, nel bene e nel male. Il calcio è un sogno da cui non vogliamo risvegliarci perché sta diventando un incubo.



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