“Se torni al lavoro ti faremo morire”, mamma costretta a lasciare il suo posto di lavoro

“Se torni al lavoro ti faremo morire”, mamma costretta a lasciare il suo posto di lavoro

“Se torni al lavoro ti faremo morire”, mamma costretta a lasciare il suo posto di lavoro   Photo Credit: agenziafotogramma.it


16 febbraio 2024, ore 15:00

Una trentotenne neomamma è stata vittima di violenze psicologiche sul luogo di lavoro, anche dopo aver denunciato è stata costretta a licenziarsi. In Italia sono più di 8 milioni le donne che hanno subito mobbing.

Una vittima di mobbing racconta al Corriere della Sera le violenze psicologiche che ha dovuto subire sul luogo di lavoro. Dopo aver comunicato la sua seconda gravidanza, i datori di lavoro l’hanno obbligata a dimettersi dal lavoro e a rinunciare ai benefit maternità che le aspettano per legge.

La seconda gravidanza

“Non dovevi fare un altro figlio, se non torni al lavoro ti faremo morire”, questa è una delle frasi che la trentottenne neomamma ha dovuto subire nell’ambiente di lavoro dove era dipendente da 15 anni. L’unica colpa: diventare mamma per la seconda volta. A Chiara, nome di finzione per assicurarle l’anonimato, hanno anche contestato di “aver avvisato troppo tardi” della gravidanza. Lei in realtà era entro i termini di legge, ma per il suo datore di lavoro non è stato abbastanza: “Dovevi dirmelo già quando tu e il tuo compagno avete deciso di avere un altro bambino”.

La denuncia

Chiara ha deciso quindi di denunciare. Ma non sono solo state le minacce ad averla spinta ad intraprendere la contestazione legale, ma anche la decisione dei dirigenti di assumere un dipendente a tempo indeterminato per sostituirla durante la sua maternità. Chiara però, nonostante tutto, ha deciso di tornare al lavoro. Da quel momento in poi sono iniziate le umiliazioni: da responsabile di reparto si è ritrovata a fare fotocopie e rispondere al citofono. Le sono stati negati gli accessi digitali, quelle delle piattaforme di lavoro come l’email, e perfino fisici, togliendole le chiavi di ingresso dell’azienda. Allora Chiara ha deciso, nell’ottobre 2019, di recarsi alla Cgil e denunciare: “È tutto molto frustrante", ha ammesso, "ma io vado avanti perché so di avere ragione”.

 Le dimissioni obbligate

"Su consiglio dell’avvocato e considerando i costi che quella vicenda stava imponendo alla mia famiglia, ho deciso di arrendermi. Mi sono dimessa prima del compimento del primo anno della bambina, ma sulla base di un accordo che prevedeva non soltanto una buonuscita ma anche, e soprattutto, il riconoscimento da parte del datore di lavoro di avermi procurato un danno biologico. Ecco, quando ho sentito pronunciare quella frase, lo voglio dire ancora oggi, ho provato l’unica gioia di tutto quel periodo orribile".

Il mobbing è soprattutto di carattere sessuale 

In Italia la portata del fenomeno del mobbing è stata analizzata gradualmente dall’ISTAT nelle indagini sulla sicurezza, attraverso l’introduzione di un modulo sulle violenze a sfondo sessuale. Nel 2018 è stata realizzata un’indagine specifica sulle molestie e i ricatti sessuali sul lavoro. Tra le declinazioni di questo fenomeno ci sono l’esibizionismo, il pedinamento, le telefonate oscene, l’invio di materiale pornografico, le molestie via social network e le molestie fisiche sessuali. L’indagine ISTAT ha permesso di stimare in 8 milioni e 816 mila (43,6%) il numero delle donne che, nel corso della loro vita, sono state vittime di molestie e di ricatti sessuali in ambito lavorativo.


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