Il Mostro di Firenze, la storia: Netflix riporta alla luce la pista sarda
Il Mostro di Firenze, la storia: Netflix riporta alla luce la pista sarda Photo Credit: Ansa/Riccardo Antimiani
28 ottobre 2025, ore 09:05 , agg. alle 09:28
Tra il 1968 e il 1985, otto coppie furono uccise nelle campagne fiorentine, sempre mentre si appartavano in auto
Con Il Mostro, la nuova serie firmata da Stefano Sollima per Netflix, riemerge dal buio uno dei capitoli più enigmatici e disturbanti della cronaca italiana: il caso del Mostro di Firenze.
I quattro episodi, presentati in anteprima durante l'ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, riaccendono l’attenzione non solo sul mistero dei duplici omicidi che terrorizzarono la Toscana per quasi vent’anni, ma anche su una pista investigativa rimasta sospesa tra verità e leggenda: la cosiddetta pista sarda.
Così fu definito quel filone che portava a un gruppo di emigrati originari di Villacidro, nel Cagliaritano, i fratelli Vinci e Stefano Mele, coinvolti nel primo delitto di coppia, quello di Signa del 1968, da cui per molti tutto avrebbe avuto inizio.
UN QUADRO D’INSIEME
Uno dei più celebri e inquietanti della cronaca nera italiana. Tra il 1968 e il 1985, otto coppie furono uccise nelle campagne intorno a Firenze, sempre mentre si appartavano in auto.
Le vittime venivano colpite con una Beretta calibro 22 e, in alcuni casi, mutilate. Dopo anni di indagini, processi e depistaggi, furono condannati Mario Vanni e Giancarlo Lotti, mentre Pietro Pacciani, il principale sospettato, morì prima del nuovo processo.
Nonostante decenni di inchieste, il vero autore o i veri autori non sono mai stati identificati con certezza: il caso resta aperto, simbolo di un enigma che continua a dividere investigatori, giudici e opinione pubblica.
LA PISTA SARDA
La serie di Sollima parte dal principio. Non racconta dei Compagni di Merende ma analizza al microscopio la cosiddetta Pista Sarda.
Si parte con Stefano Mele, marito di Barbara Locci, la donna uccisa nel 1968 a Signa insieme all’amante Antonio Lobianco. Mele venne condannato per quel duplice delitto, ma quando gli inquirenti, anni dopo, iniziarono a collegare gli omicidi successivi, l’uomo era già in carcere: non poteva essere lui il killer, anche se i bossoli ritrovati sul luogo del primo crimine risultarono compatibili con quelli delle stragi successive.
Per cercare un nuovo colpevole, gli investigatori seguirono le tracce lasciate dallo stesso Mele, che per difendersi aveva indicato i nomi di altri uomini del suo ambiente: Salvatore e Francesco Vinci, entrambi originari di Villacidro. Salvatore fu arrestato nel 1986, ma assolto per mancanza di prove; Francesco, finito più volte in carcere per violenze domestiche, non poteva essere l’autore degli omicidi, che continuarono anche durante la sua detenzione.
Nel 1983 finirono sotto accusa anche Giovanni Mele, fratello di Stefano, e Piero Mucciarini, suo cognato. Ma l’anno seguente un’altra coppia fu uccisa: la catena di sangue non si era interrotta, e anche loro vennero scagionati. Francesco Vinci morì assassinato nel 1993, quando la cosiddetta pista sarda era già archiviata da tempo, ufficialmente chiusa nel 1989.
Un ultimo colpo di scena è arrivato nel 2025, quando un accertamento genetico disposto dalla Procura di Firenze ha rivelato che Natalino Mele, il bambino presente la notte del delitto di Signa, non era figlio di Stefano Mele, ma di Giovanni Vinci, fratello maggiore di Francesco e Salvatore.
Una verità biologica che, pur non cambiando il corso giudiziario delle indagini, riapre simbolicamente il cerchio di quella prima, oscura storia da cui tutto ebbe inizio.
LA PISTOLA E IL NODO IRRISOLTO
C’è però un punto che continua a pesare: la pistola. Gli inquirenti hanno sempre sostenuto che l’arma usata a Signa nel 1968, una Beretta calibro 22 mai ritrovata, sia la stessa con cui furono uccise le coppie negli anni successivi. I sardi, in quella notte d’estate del ’68, avevano dunque in mano la pistola del Mostro. È da qui che nasce, e mai del tutto si esaurisce, la pista sarda.
Tre ipotesi si sono alternate nel tempo: che Giovanni Vinci o uno dei fratelli abbiano continuato a uccidere; che l’arma sia rimasta all’interno del gruppo familiare, passando di mano; o che sia stata ceduta, volontariamente o meno, ad altri. La sentenza di primo grado contro Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale che sarà poi assolto, liquidava la questione con poche righe, ipotizzando genericamente un “passaggio di mano”. Ma quella pistola, mai trovata, resta il centro di gravità del mistero.
LA SERIE DI SOLLIMA E IL BUIO DELL’ANIMO UMANO
Il Mostro di Stefano Sollima evita con intelligenza il rischio di trasformarsi in un’inchiesta audiovisiva o in un atto d’accusa. Non pretende di risolvere il caso, ma di raccontarlo attraverso le sue ombre.
La serie non è una mera ricostruzione cronachistica: esplora gli interstizi della psiche umana, il desiderio, la paura, la morbosità e la violenza che germogliano nelle menti di chi vive in ambienti chiusi, provinciali, intrisi di pregiudizi e repressione.
Sollima mostra come il male possa annidarsi nel quotidiano, senza confini tra il colpevole e il contesto che lo genera.
E se la storia della pista sarda è solo il punto di partenza, i realizzatori lasciano intendere che il racconto proseguirà, arrivando a quello che venne dopo: il tempo dei “compagni di merende”, l’ultimo capitolo di una vicenda che continua, a distanza di mezzo secolo, a interrogare la coscienza collettiva italiana.



