Caporetto e dintorni, non vogliamo guerre

Caporetto e dintorni, non vogliamo guerre

Caporetto e dintorni, non vogliamo guerre


Il punto su RTL 102.5 di Davide Giacalone

Caporetto (24 ottobre 1917), cento anni fa. Fu e divenne il simbolo della disfatta nazionale. Diversa la natura, ma analogo il disfacimento, simboleggiato da un’altra data: 8 settembre 1943, l’armistizio, la fuga del re e dello Stato, lo sbando delle forze armate, il fuoco della guerra civile. Si reagì e si seppe riprendersi. Arrivò Vittorio Veneto (battaglia cominciata esattamente un anno dopo Caporetto e terminata, con la vittoria, il 4 novembre 1918), grazie al contributo dei Ragazzi del ’99, diciottenni non ancora maggiorenni, gettati nelle trincee e sul campo di battaglia.
Arrivò la Resistenza e quel Comitato di Liberazione Nazionale in cui prese forma la classe dirigente della nascitura Repubblica Italiana. Le celebrazioni possono essere stucchevoli, ma perdere la memoria fa uscire di senno. Due cose dovremmo piantarci nella testa, per igiene contemporanea, relativamente al centenario della Grande Guerra.La prima è che ancora all’inizio del 1914 nessuno immaginava lo scoppio del conflitto e il suo divenire mondiale (fa eccezione il libro di Jean Gotlib Bloch, “La guerre future”, uscito nel 1897). Il secolo era iniziato all’insegna della Belle époque, del bel vivere, della fiducia nell’evoluzione tecnologica e della crescita economica. L’industria sbuffava fumi e vapori, le case regnanti europee si riunivano, fra parenti, in convivialità. Non che non esistessero (come sempre) interessi diversi e in conflitto, ma nessuno supponeva potessero portare alle armi.

Certo, esistevano i forti disagi della neo classe operaia, con la miseria dell’inurbamento di massa. Ma è banale supporre quello fosse motivo sufficiente perché si desse fuoco alle polveri: a. perché tali disagi non erano un buon motivo per scannarsi fra derelitti; b. perché non erano stati deportati, ma si erano sottratti alla miseria contadina. Come sempre capita, quel che rendeva la faccenda complicata non era l’esistenza di problemi sociali ed economici, ma il loro essere nuovi, il loro generare nuova coscienza e nuove formazioni politiche, a loro volta segno (che se ne condividesse o meno natura e programmi) di un’evoluzione positiva.

Chi parlava di guerra, in quell’albore di secolo? Talune élite culturali. Chi, come il nostro Filippo Tommaso Marinetti, con il manifesto futurista, vedeva nella guerra la “sola igiene del mondo”. I nemici della cultura borghese, cui imputavano la crescita del benessere e il rammollimento degli animi. Quanti erano convinti che solo nel fuoco e nel sangue si sarebbe forgiato un uomo nuovo, puro nei sentimenti e forte nelle convinzioni. Molti di loro (si pensi a Giovanni Papini) si ricrederanno, ma dopo che le trincee avevano preso a macinare montagne di morti.

Si mescolarono queste idee con la febbre nazionalista, si fortificò la miscela cercando fuori da sé il colpevole del mondo, la si compresse con la paura che la civiltà non combattente sarebbe stata soccombente, infine si avvicinò il fuoco dei conflitti territoriali e della ricerca delle materie prime. Esplose. Solo a noi italiani costò 650mila morti. 10 milioni i militari, ragazzi, morti. A questi si aggiungano quelli della fame e della febbre spagnola.Troppi non conoscono la storia, troppi credono di saperne qualche cosa solo per avere visto dei film. Solo che quelli sono prevalentemente dedicati alla seconda guerra mondiale, a sua volta generata da mostri ideologici che s’erano forgiati in quella fornace di sangue, miseria e morte. Eppure l’Europa di oggi e tante cose che si dicono a vanvera somigliano più all’Europa di allora che a quella in cui il nazifascismo decise la guerra. Tanti discorsi di oggi evocano il linguaggio di allora. E le élite odierne, come allora, usano il linguaggio irresponsabile dicendo di star dando voce al popolo contro le élite. La differenza è che gli irresponsabili di oggi li mantiene tutti il contribuente. Ricordiamo il punto di partenza: nessuno immaginava fosse possibile una guerra.

La seconda cosa è più tecnica, ma rilevante. A Caporetto trionfò Erwin Rommel (distintosi anche nella seconda guerra mondiale, la “Volpe del deserto”). Molti dettagli sono importantissimi, ma, per farla breve: lui si mosse decidendo di ora in ora cosa fare, con grande autonomia, mentre l’esercito italiano era tenuto al rispetto della linea di comando, sicché a dare gli ordini erano quelli che non si trovavano sul campo. Il capovolgimento del luogo comune: il tedesco vinse usando elasticità e autonomia, gli italiani persero e furono travolti (anche) per essersi incaponiti a rispettare la gerarchia e la rigidità. A Vittorio Veneto gli italiani capovolsero l’approccio, mettendo in fuga il nemico sconfitto.

Guerre non ne vogliamo, di nessun tipo. Ma anche questa seconda lezione andrebbe valorizzata, sul più sano e promettente terreno della crescita economica e della libertà d’intrapresa.

Davide Giacalone


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