Baby Gang a Napoli, il punto della situazione

Baby Gang a Napoli, il punto della situazione

Baby Gang a Napoli, il punto della situazione


Cosa sta succedendo a Napoli? È lecito chiederselo o parlando di baby gang rischiamo di cadere vittime di una distorsione giornalistica?

Azzarderò una risposta, che ci porterà un po’ lontano dalle stazioni della metro, battute dai delinquenti in erba. Il tema della violenza giovanile - frutto innanzitutto di un’assoluta strafottenza nei confronti del principio di autorità - c’è ed è allarmante. Non credo, però, possa essere analizzato, prescindendo da ciò che è Napoli e dalla narrazione che si è fatta della "capitale del Mezzogiorno". Non si contano più le "rinascite", "rivoluzioni", "primavere" annunciate per la città. Dall’ormai lontana era Bassolino – prima metà degli anni ’90 – ad oggi, quasi nessuno è riuscito a sottrarsi all’immagine della Napoli che rinasce, torna, sorprende e ammalia. Di cosa si stia parlando, è presto detto: una fortissima ripresa turistica, un interessante e rigoglioso fenomeno di micro-imprenditorialità, alimentato (finalmente!) dalla storia e dalla bellezza. Oltre a questo?
Il tessuto sociale e produttivo, se non "baciato" dal boom turistico, è rimasto spesso uguale a se stesso, sospeso fra gli estremi dell’immobilismo e di poderosi, ma isolati slanci di modernità e coraggio. Il problema è che a camminare sul filo ci vuol poco a cadere. O lasciarsi attrarre dal vuoto. Per quella parte di Napoli (e del suo complesso, popolosissimo, ventre periferico) fuori dai luccichii del "lungomare liberato", lontana anni luce dai percorsi turistici, sentir parlare di "rinascita" equivale più o meno a un sermone in esperanto.La consapevolezza è che Napoli ha fatto finta, per anni, di non vedere una parte di sé staccarsi, restare indietro. Senza possibilità di recupero. Vomero, Chiaia, Posillipo, persino e in qualche misura i famigerati Quartieri Spagnoli di un tempo, zeppi di B&B e ristoranti, è una vita che guardano con malcelato disprezzo "l'altra Napoli"

Se si vuole provare a capire come nasce una baby gang, non si può dimenticare che UNA Napoli non è mai esistita. Da sempre, la stratificazione sociale partenopea è plastica, quasi fisica. Che nella città del ‘600 e ‘700 i "signori" e il "popolino" vivessero non di rado negli stessi, splendidi palazzi di Spaccanapoli, non deve far dimenticare come solo questa città avesse ancora un’entità riconoscibile come "plebe". Forse, dobbiamo avere il coraggio di dircelo, ce l'ha ancora.Senza una condizione di bancarotta sociale e familiare assoluta, un fenomeno come quello della baby gang alla partenopea semplicemente non potrebbe esistere. Capisco che sia più affascinante e di moda sostenere che questi ragazzotti siano mossi da uno spirito emulativo degli anti-eroi di Gomorra. Sarà pur vero nel linguaggio, nelle movenze, nello scimmiottare i boss e la "paranza" - un gruppo aveva una sola pistola giocattolo e se la passava a turno nei "colpi" - ma da dove arriva, come nasce, l’istinto primordiale del branco predatore, se non da una famiglia, un ambiente, una scuola ridotti a nulla? Sia chiaro: non è una giustificazione. Piuttosto un’aggravante.

La consapevolezza è che Napoli ha fatto finta, per anni, di non vedere una parte di sé staccarsi, restare indietro. Senza possibilità di recupero. Vomero, Chiaia, Posillipo, persino e in qualche misura i famigerati Quartieri Spagnoli di un tempo, zeppi di B&B e ristoranti, è una vita che guardano con malcelato disprezzo "l'altra Napoli". E questa, i suoi figli più reietti o semplicemente più ingenui e irresponsabili, rispondono rubando cellulari, menando, minacciando persino i militari. Sputano in faccia, non tanto allo Stato, che in definitiva manco conoscono, ma "agli altri".Senza giri di parole, il mondo di molti di questi ragazzi non ha nulla in comune con il nostro, se non dei pezzi di esteriorità: lo smartphone, il linguaggio mutuato da una serie Tv, il look da gang di latinos. Molti dei loro genitori hanno fallito e se ne fregano. Ma non sono gli unici.


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