I cinquant'anni di "Imagine". Il miracolo di una canzone ispirata da Marx e antireligiosa amata anche dalla Casa Bianca e dal Vaticano

I cinquant'anni di "Imagine". Il miracolo di una canzone ispirata da Marx e antireligiosa amata anche dalla Casa Bianca e dal Vaticano

I cinquant'anni di "Imagine". Il miracolo di una canzone ispirata da Marx e antireligiosa amata anche dalla Casa Bianca e dal Vaticano


John Lennon dichiarò che il suo inno pacifista si ispirava al Manifesto del Partito Comunista, oltre che a una poesia della moglie Yoko Ono. Ma il suo “sogno” non si è mai materializzato. Mezzo secolo dopo l’uscita dell’album, molte città del mondo omaggiano quel testo storico.

Le parole scritte da John per “Imagine” sono state proiettate in queste ore sugli edifici di molte città del mondo. Anche nella “sua” New York. Così, chi si è trovato a passeggiare per Times Square, ha notato quel testo giganteggiare sulle installazioni luminose dei grattacieli e quasi rimbalzare contro l’ufficio di arruolamento delle forze armate americane collocato proprio al centro della piazza. Come a perpetuare l’eterno contrasto tra il “sogno” di pace irradiato da Lennon nel 1971, e la cruda realtà di un mondo diviso dai conflitti. Una rotta di collisione tra utopia e storia ancora più lacerante quest’anno, dopo la conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani e a due giorni dal ventesimo anniversario dell’11 settembre. “Imagine”, l’album con l’iconica canzone, fu pubblicato il 9 di questo mese, cinquanta anni fa. Quando John era ormai distante anni luce dall’isteria pop provocata dai Beatles, e alle prese con una mobilitazione permanente, personale e generazionale, contro l’orrore del Vietnam. Un accordo in Do maggiore, quello attorno al quale gira “Imagine”, suonato nella quiete domestica della residenza inglese dei Lennon a Tittenhurst Park, a seimila miglia di distanza da Manhattan e dai suoi cortei di protesta, e quasi agli antipodi dalle mattanze con il napalm in Estremo Oriente. Ma l’eco della canzone non si è mai spenta, e a volte ha sovrastato i clamori degli slogan e dei bombardamenti.


La “beffa” di quelle parole

Imagine” (che in questa occasione viene ripubblicato in una versione speciale, mentre si moltiplicano le proiezioni del film) era il quinto album solista di Lennon, prodotto da un pazzo di genio come Phil Spector: di rilievo anche la collaborazione amichevole di George Harrison. I critici lo accolsero in modo controverso, fregandosi le mani per la nuova puntata della querelle con McCartney, al quale John aveva dedicato la velenosa “How do you sleep?”, mentre per il brano-guida notavano “una caduta di tensione” rispetto alla furia sovversiva rock del precedente “Plastic Ono Band”. Qui Lennon aveva prodotto quella che sembrava una canzoncina, per ammissione dello stesso autore “accettata solo perché ricoperta di zucchero” e ispirata primariamente a una vecchia poesia di Yoko, “Cloud piece”. Ma all’interno del testo in cui si vagheggiava la concordia universale si celava un doppio fondo. Spiegò John: “Il mio pezzo è contro ogni religione, il capitalismo, le convenzioni, i politici, le nazioni. Di fatto, anche se non sono particolarmente comunista, si può dire fondata sul Manifesto di Marx”. Il “trucco” funzionò, se il presidente Usa Jimmy Carter ammise, anni dopo, che “in molti paesi Imagine gode dello stesso rispetto degli inni nazionali”. Fu eseguita persino davanti a Wojtyla, per la Giornata Mondiale della Gioventù di Bologna, nel 1997. Il Papa, incurante di quei versi in cui si nega l’esistenza di un Paradiso e di un Inferno, apprezzò la cover, in parte tradotta in italiano, cantata da Gianni Morandi e Barbara Cola.


La “vendetta” della Musa sulla vita di John

Ma “Imagine”, creata in uno stato di grazia emotivo, pretese un pedaggio nella vita e nella carriera dell’ex Beatle. Già due anni prima Lennon aveva varato una campagna promozionale natalizia con affissioni (anche a Times Square, di nuovo...) con “Happy XMas”, dove lui e Yoko ricordavano che con un po’ di buona volontà la guerra del Vietnam poteva arrivare alla fine. L’amministrazione americana lo mise nel mirino: quel portavoce pacifista doveva essere messo in condizioni di non nuocere, soprattutto perché erano in vista le prime elezioni cui avrebbero partecipato i diciottenni, potenziali oppositori del conflitto in Asia. Così, Nixon e l’Fbi misero i bastoni tra le ruote a Lennon, negandogli a lungo il visto di permanenza negli Usa. John vinse la sua battaglia legale a metà dei Settanta, nello stesso giorno in cui divenne padre di Sean. Poteva restare in America, si sentiva finalmente pronto per riprendere le redini della propria vita insieme alla sua famiglia. Ci riuscì fino all’8 dicembre 1980, quando incontrò il suo killer, il fan Mark David Chapman. Lennon stramazzò al suolo sotto casa, nel cuore di New York, di fronte al Central Park. Lì dove ora, in suo onore, si può passeggiare lungo gli Strawberry Fields, il cui centro è un mosaico, realizzato da artisti campani, con il simbolo della pace, una chitarra e la scritta Imagine

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