L'ultimo messaggio di Amy Winehouse, la musa fragile del soul. Una tragica notte di solitudine, tra la vodka e Youtube, dieci anni fa

L'ultimo messaggio di Amy Winehouse, la musa fragile del soul. Una tragica notte di solitudine, tra la vodka e Youtube, dieci anni fa

L'ultimo messaggio di Amy Winehouse, la musa fragile del soul. Una tragica notte di solitudine, tra la vodka e Youtube, dieci anni fa


Il 23 luglio 2011 veniva trovata senza vita nel proprio letto la voce più talentuosa della scena pop mondiale. Due album, cinque Grammy Awards, esibizioni sul palco che potevano essere memorabili o strazianti. Il demone dell’alcool, gli amici infelici

L’sms partì dal suo cellulare alle 3.10 del mattino. Il destinatario, l’amico bassista Kristian Marr, lo lesse solo al risveglio, molte ore dopo, quando il destino di Amy si era già compiuto. La musa del soul gli aveva scritto: “Io sono sempre qui xx”, attendendosi una risposta, magari per pianificare i festeggiamenti del compleanno di Kristian nel Kent. Era stata una notte di buio invalicabile, per la Winehouse. Nella sua casa di Camden Square, nel proprio letto. Ore e ore a scolare almeno tre bottiglie di vodka, a riguardare i suoi video su YouTube, e a intercettare al telefono, coi messaggini, chiunque le volesse un po’ di bene. Il fidanzato Reg Treviss aveva provato a chiamarla intorno alle 23.30. Squilli a vuoto, Reg non si era preoccupato. “Dormirà di sicuro”. Ma da quel sonno inquieto continuava a svegliarsi, come se non volesse affondare nelle tenebre, come se un presagio malefico le chiudesse la gola. Si era fatta portare dalla guardia del corpo Andrew Morris una cena indiana da asporto. I due avevano chiacchierato un po’, lei voleva essere rassicurata sul proprio talento. “Accidenti se sai cantare”, aveva risposto Morris. Che verso mezzogiorno del 23 luglio 2011 aprì la porta della stanza di Amy, e la credette addormentata. Controllò tre ore più tardi. Amy Winehouse era morta.

IL FALLIMENTO DEL REHAB

Due album formidabili come “Frank” e soprattutto “Back to black”. Tra il primo e il secondo aveva perso ben quattro taglie, ma guadagnato cinque Grammy Awards. Il peso del successo schiacciava sempre di più il peso di quell’anima più fragile del corpo. Pestava i piedi rivendicando la sua volontà di “far musica con gli amici, non da superstar”. Desiderio impossibile. Lo show business non avrebbe mai lasciato da parte una voce come la sua, che in ogni ombra, in ogni risonanza raccontava la profondità del male di vivere, come prima di lei avevano saputo fare in poche: Dinah Washington, Etta James, Billie Holiday, Aretha Franklin, Edith Piaf, Sarah Vaughan. Amy era sballottata dentro un’esistenza precaria e dolorosa, e sui palchi sapeva essere divina o - a volte - disastrosa. Il concerto di Belgrado del giugno 2011 era stato imbarazzante, con lei troppo ubriaca per poter semplicemente parlare in modo coerente, figurarsi cantare. Usciva dal fallimento del matrimonio tossico, in tutti i sensi, con Blake Fielder-Civil, e da un tentativo di ripulirsi da droga e alcool nel gennaio 2008. Ma proprio come nella sua ‘Rehab’, dentro quella struttura aveva resistito pochi minuti. S’era rivolta al padre Mitch: “Pensi che io abbia bisogno di entrare lì?”. “No, ma provaci”, aveva risposto il signor Winehouse.


L’EREDITA' DELL'USIGNOLO

Già nel 2011, all’indomani della sua scomparsa, i genitori vararono la Amy Winehouse Foundation per aiutare le donne in difficoltà. E la BBC, in questo decennale, ha annunciato un nuovo documentario per far luce sulla breve, tormentosa vita della cantante. Uccisa non da una volontà ostinata di autodistruzione, ma dalla incapacità di difendersi da demoni chiamati Alcool, Droga, Bulimia, Mancanza di Autostima. E incontri sbagliati. Di certo, da quella tragica notte tra il 22 e il 23 luglio in cui si era votata a uno “stop and go” etilico dopo almeno venti giorni di sobrietà, la musica ha perso un talento di purezza rara. Hanno provato a farla “rivivere” con inquietanti concerti in cui la sua vera band suona dietro il suo realistico ologramma, il macabro fantasma della splendente Amy. E peggio ancora, un algoritmo ha tentato di “costruire” un brano a sua immagine e somiglianza (ma la voce non è la sua) inserito in un album dedicato ad altri illustri spettri del Club27, le superstar morte a quell’età. Nel disco si possono ascoltare copie artificiali, generate da un computer, di Jimi Hendrix, Kurt Cobain e Jim Morrison. Più una credibile, ma finta “Amy”. Che pare dirci, come in quell’ultimo messaggio a vuoto, “Io sono sempre qui xx”.



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