Addio a Kenny Rogers, gigante unico del country americano

Addio a Kenny Rogers, gigante unico del country americano

Addio a Kenny Rogers, gigante unico del country americano


Ha cantato a Sanremo e interpretato standard della musica popolare Usa. Ora quel genere così tradizionale rischia di tornare ai margini delle classifiche che contano

Sdoganò il country alla musica pop

Da noi non è popolare, il suo volto non si sposa con quell’onda magnetica e indefinibile che si classifica con l’idioma “immaginario collettivo”. Eppure Kenny Rogers è uno dei pochi artisti al mondo capace di fare un vero e proprio miracolo: ha sdoganato la tradizione del country americano, la musica popolare d’Oltreoceano, al cospetto del pop planetario, un po’ come Elvis Presley che riconvertì il rock and roll da musica delle cantine a genere da classifica, facendolo diventare un inno di un’intera generazione.


Nel ’65 a Sanremo con Bobby Solo

Se n’è andato per cause naturali qualche giorno fa Kenny all’età di 81, attorniato dall’affetto della famiglia nella sua abitazione nello Stato della Georgia. Se n’è andato dopo una carriera tutta da incorniciare. Nato nel 1938, Rogers è giovanissimo quando dà vita ai suoi primi gruppi di rockabilly, un genere musicale nato nei primi Anni ’50 come forma composita di rock and roll, contaminato da bluegrass, country, boogie woogie, jazz. Fin dagli inizi, Rogers sfodera un carattere e un talento evolutivi e entra nella formazione dei New Christy Minstrels, nella quale militano personaggi come Kim Carnes, Gene Clark, Barry McGuire. Hanno successo e sbarcano a Sanremo ’65 con ‘Se piangi se ridi’, il brano con cui Bobby Solo vince l’edizione del Festival di quell’anno.

La strada verso il successo

Fino ad arrivare dopo altre esperienze al 1976, l’anno in cui Rogers decide di mettersi in proprio. E proprio da quella svolta la sua carriera prende una piega che lo proietterà ai vertici della musica ‘che conta’, il rock, il pop da classifica. Quando incide il primo album solista intitolato con il suo nome e cognome, la prima preoccupazione è individuare il singolo che lo possa trainare in alto. Scelta che cade su “What’s He Got That I Ain’t Got”, ancora oggi considerato un evergreen della musica americana e, proprio per questo, riproposto in una infinità di cover. Entrato nell’Olimpo degli dei, dà vita a duetti eccellenti con colleghi dal nome sonante: Sheena Easton, Lionel Richie, Bob Seeger. Si fa produrre l’album “Eyes That See in the Dark” dai Bee Gees. Nella scaletta di quel disco risplende “Islands in the Stream”, cantato con Dolly Parton, un marchio di fabbrica del country di oggi. La strada è tracciata.


Nel gruppo di ‘We Are The World

Kenny Rogers adesso frequenta le classifiche che contano e la sua proverbiale barba color argento, la sua voce calda e melodiosa, spiccano nel super gruppo di ‘USA for Africa’ per “We Are the World”, interpretato, tra gli altri, da mostri sacri come Bruce Springsteen, Tina Turner, Bob Dylan, Lionel Richie e Michael Jackson, diretti dal genio di Quincy Jones. Rogers è una star e diventa talmente popolare che nell’87 gli affidano la conduzione degli “American Music Awards” a Los Angeles e nell’88 vince il Grammy, l’Oscar del disco, nella categoria “Miglior collaborazione country vocale” insieme con Ronnie Milsap. Nel 2013, il suo nome è inserito nella “Country Music Hall of Fame”, un’onorificenza prestigiosa e dovuta. Difficile trovare oggi un interprete capace di calamitare l’attenzione trasversale verso il genere country come ha fatto lui. Ora che Rogers non c’è più, il country rischia di tornare ai margini dell’Impero musicale, perché forse nessuno ha saputo ereditare la forza dirompente di quel cantante discreto e testardo, un gigante buono ed elegante.


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