Parliamo un po' di Milano... una città in cui la periferia ormai cade a pezzi

Parliamo un po' di Milano... una città in cui la periferia ormai cade a pezzi

Parliamo un po' di Milano... una città in cui la periferia ormai cade a pezzi


Lontano dalle luci della ribalta, dall’imponenza del Duomo, dalla ricchezza dei nuovi quartieri di moda come City Life, c’è una periferia che soffre

Antefatto

Milano, la città che non dorme mai, quella degli aperitivi e delle notti folli, quella degli uffici e delle metropolitane gremite di gente, faro della moda nel mondo, si sta spegnendo, a causa dei lockdown e delle misure restrittive messe in campo nel tentativo di arginare la pandemia. E la sua periferia, sulla cui salute vale la pena soffermarsi per tastare il polso di un intero sistema, sta cadendo a pezzi. Ieri pomeriggio ho parcheggiato l’auto e sono andata in giro a piedi per sbrigare le consuete commissioni. Per avere l’impressione di essere davvero nella city, devo oltrepassare il cavalcavia Buccari, che si trova nella zona sud di Milano, dove in mezzo ad un parco agricolo sorge il posto che è diventato la mia seconda casa -la prima è a Verona- un’ex fabbrica della Richard Ginori adibita a loft. La struttura è un cantiere in continua costruzione, immerso dalla mattina alla sera nel rumore intermittente di martelli pneumatici e saldatrici, che si mescolano ai suoni provenienti dalle varie unità abitative -anche se i loft sarebbero C3, quindi esclusivamente ad uso ufficio. Aggirandosi tra i corselli che suddividono le varie zone, si respira un'atmosfera post-industriale, indefinita, fuori dal tempo. Quando piove e l'acqua scende dai cornicioni arrugginiti o batte sulle lamiere provvisorie che verranno sostituite da altre costruzioni, il contesto assume contorni alla Blade runner. I Tucididiani - quelli che qui vivono e lavorano - sono una razza meticcia, che annovera nel suo habitat un campionario umano vario, dallo studente universitario che per pagarsi gli studi sbarca il lunario facendo il modello, al professionista affermato. Una fetta consistente della comunità è costituita dai cani e dai gatti, che si spartiscono il territorio, il più delle volte pacificamente, non disdegnando qualche esemplare tafferuglio. Le unità hanno varie metrature e caratteristiche, ma in generale si tratta di strutture terra-cielo, con ampie vetrate, scale di ferro o cemento e soppalchi di legno. Le varie zone sono state ribattezzate dai Tucididiani in base alla tipologia, al costo ed alle caratteristiche dei loro abitanti; esiste così Melrose Place - dove gli ampi loft sono dotati di un dehor o di un terrazzo, che potrebbe essere definita la zona residenziale deluxe - ed il Bronx, occupato perlopiù da strani individui con creste e capelli fluo, che si spostano in monopattino e che trasportano in continuazione cose con i carrelli della spesa. Il Bronx è una comunità a parte con proprie regole e criteri di appartenenza. Io appartengo alla zona detta Montaggio -il nome è sicuramente una reminiscenza della vecchia fabbrica di sanitari-intermedia a livello di prestigio, dove si mescolano eterogenee tipologie di persone e di attività professionali.


Impressioni di marzo

Immersi in un’incessante frenesia quotidiana, capita sempre più raramente che ci si soffermi davvero a guardare quello che ci circonda. Ieri, su quel cavalcavia che sormonta le rotaie del treno, ho avuto il tempo di farlo. In un angolo semi nascosto, il giardino di una chiesa, si erge maestoso uno splendido albero fiorito di rosa, immagine profondamente stridente con l’immondizia sparsa ai suoi piedi e disseminata su strade e marciapiedi, tanto che la gente ormai non si china nemmeno più per raccogliere l’ennesima cartaccia che incontra sul proprio cammino. Colpisce l’incredibile numero di mascherine abbandonate con noncuranza a terra: ne ho contate almeno una dozzina nella sola via Negroli dove mi sono fermata a comprare frutta e verdura in un piccolo negozio gestito da una coppia di indiani. L’odore di urina che imbratta i muri dei palazzi penetra in maniera fastidiosa nelle narici, pur sigillate dal dispositivo di protezione anti Covid, la nostra inseparabile mascherina. Una spessa patina grigia ricopre i muri di negozi e condomini, dall’aspetto perlopiù fatiscente. Dal degrado non si sfugge, perché è radicato in ognuno di noi: ci siamo abituati a passare oltre, a non voler vedere, a dimenticare presto. Sulle saracinesche abbassate campeggiano le scritte “chiudo”, “vendesi”, o al massimo “svendita per cessata attività”. Le persone attendono il loro turno d’ingresso al supermercato con aria sconfitta, qualcuno sembra preoccupato, magari su come riuscire a fare la spesa il giorno dopo. Sulla strada del rientro noto una ragazza avvenente, bionda, vestita alla moda, che spinge un carrello della spesa carico di vestiti, sacchi e merce varia. Ha lo sguardo perso e parla da sola. Non posso non chiedermi cosa possa esserle accaduto, quando il suo cervello sia andato in blackout, quando ha smesso di essere “normale”.


I fatti

In un anno che ha messo alla prova anche la salute mentale dell’umanità, come mai era accaduto nella storia recente, si paga il cosiddetto effetto lockdown. In base al primo rapporto annuale del Mental Health Million project, un'iniziativa mirata a misurare il benessere mentale globale per individuare i problemi più diffusi e guidare gli interventi di salute pubblica, il 2020 ha riportato un calo significativo e diffuso della salute mentale ed il crollo più evidente riguarda la fascia di età tra i 18 e i 24 anni. Secondo la stima dell’Ufficio Studi Confcommercio sulla nati-mortalità del 2020 delle imprese del commercio non alimentare, dell’ingrosso e dei servizi l’effetto combinato del Covid e del crollo dei consumi del 10,8% -pari a una perdita di circa 120 miliardi di euro rispetto al 2019 -ha portato per il 2020 la chiusura definitiva di oltre 390mila imprese. Di queste, 240mila esclusivamente a causa della pandemia. L’emergenza sanitaria, con le conseguenti restrizioni e chiusure obbligatorie, ha acuito drasticamente il tasso di mortalità delle imprese che, rispetto al 2019, risulta quasi raddoppiato per quelle del commercio e addirittura più che triplicato per i servizi di mercato. Se i drammatici effetti di questa situazione si ripercuotono su una città tradizionalmente considerata ricca come Milano, la situazione a rigor di logica deve essere disperata nelle zone più fragili del paese. Aldilà dei dati e delle statistiche, io credo che una città possa essere considerata produttiva ed in salute quando tutti i suoi quartieri, le sue zone ed i suoi abitanti siano equamente supportati da una adeguata politica di sostegno. Milano che dimentica la sua periferia è come qualcuno che si mette in ghingheri senza prima lavarsi. 

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