Trattativa Stato-mafia, assolti in appello Dell'Utri e i carabinieri

Trattativa Stato-mafia, assolti in appello Dell'Utri e i carabinieri

Trattativa Stato-mafia, assolti in appello Dell'Utri e i carabinieri


la Corte d'assise d'appello di Palermo che ha riformato la sentenza di primo grado e assolto i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. Erano stati condannati a 12 anni. Assolto anche Marcello Dell'Utri, condannato anche lui a 12 anni di carcere

Tutti assolti gli ex ufficiali dei carabinieri nel processo d'appello sulla trattativa tra Stato e mafia. Lo ha deciso la Corte d'assise d'appello di Palermo che ha riformato la sentenza di primo grado e assolto i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. Erano stati condannati a 12 anni. Assolto anche Marcello Dell'Utri, condannato anche lui a 12 anni di carcere. La sentenza è stata emessa dopo tre giorni di camera di consiglio.


Il testo del dispositivo della sentenza

Questo il testo del dispositivo del processo di appello al processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, pronunciato dalla Corte di assise di appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino. "In parziale riforma della sentenza emessa dalla Corte di assise di Palermo in data 20 aprile 2018 - si legge - assolve De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subranni Antonio dalla residua imputazione a loro ascritta per il reato di cui al capo A, perché il fatto non costituisce reato". "Dichiara - prosegue il dispositivo - non doversi procedere nei riguardi di Bagarella Leoluca Biagio, per il reato di cui al capo A, limitatamente alle condotte commesse in pregiudizio del governo presieduto da Silvio Berlusconi, previa riqualificazione del fatto; come tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello stato, per essere il reato così riqualificato estinto per intervenuta prescrizione. E per l'effetto ridetermina la pena nei riguardi di Bagarella in anni 27 di reclusione". "Assolve Dell'Utri Marcello dalla residua imputazione per il reato di cui al capo A, come sopra riqualificato, per non avere commesso il fatto e dichiara cessata l'efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio già applicata nei suoi riguardi".

La Corte ha revocato le statuizioni civili nei riguardi degli imputati De Donno, Mori, Subranni e Dell'Utri e rideterminato in 5 milioni di euro l'importo complessivo del risarcimento dovuto alla Presidenza del Consiglio dei ministri. La Corte d'assise "conferma nel resto l'impugnata sentenza anche nei confronti di Giovanni Brusca e condanna gli imputati Bagarella Cina' alla rifusione delle ulteriori spese processuali in favore delle parti civili (Presidenza del Consiglio dei ministri, presidenza della regione siciliana, comune di Palermo, associazione tra familiari contro le mafie, centro Pio La Torre". La corte ha fissato in 90 giorni il termine per il deposito delle motivazioni.


Le reazioni

"Questa assoluzione è una svolta non solo per me ma per la giustizia italiana, questo processo era mostruoso". Lo ha detto, in un'intervista all'Adnkronos, Marcello Dell'Utri, subito dopo l'assoluzione. In primo grado l'ex senatore era stato condannato a dodici anni di carcere. "Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo". Sono le uniche parole pronunciate dal sostituto procuratore generale Giuseppe Fici al termine della lettura del dispositivo del processo d'appello. "Da una parte la Corte d'appello condanna per il reato di minaccia i mafiosi, dall'altro assolve i colletti bianchi. Quindi vuol dire che la trattativa c'è stata e che non è una bufala. Aspettiamo di leggere le motivazioni, ma una sentenza così è difficile da spiegare: solo se fossero stati tutti assolti sarebbe stato ribaltato il giudizio di primo grado con la conseguenza di riconoscere l'assenza della trattativa. Invece la condanna di Cinà conferma il papello e il suo arrivo a destinazione. La minaccia nei confronti dello Stato ci fu. Quindi questa sentenza conferma la trattativa, mentre esclude la responsabilità personale degli imputati condannati come tramite nel processo di primo grado". A dirlo all'Adnkronos è Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo e padre dell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.

La ricostruzione

La storia sarebbe cominciata dopo l'uccisione dell'eurodeputato Salvo Lima nel marzo 1992 e sarebbe entrata nel vivo tra l'attentato a Giovanni Falcone e la strage di via D'Amelio in cui morì Paolo Borsellino. In quella stagione sarebbero cominciati gli incontri riservati del comandante del Ros, Mario Mori, e del suo braccio destro Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino. Per la Procura di Palermo da lì sarebbe partita la "trattativa" tra Stato e mafia. No, hanno sempre sostenuto i due ufficiali: quella era un'attività investigativa, che trova ora riscontro nella sentenza d'appello, con cui si mirava a fermare le stragi e a catturare Totò Riina. Le posizioni non sono mai cambiate sin da quando - era il 2008 - il caso è diventato un fascicolo giudiziario: 13 anni di indagini sfociate nell'assoluzione di investigatori e politici. Anche grazie alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (poi giudicato inattendibile in molte sue ricostruzioni), solo nove anni fa, il 29 ottobre 2012, la vicenda è approdata in dibattimento con l'udienza preliminare conclusa con il rinvio a giudizio di Riina e del cognato Leoluca Bagarella, di Bernardo Provenzano, Mori, De Donno, Massimo Ciancimino, Marcello Dell'Utri indicato come il tessitore politico della "trattativa", Giovanni Brusca, Antonino Cina' medico di Riina e postino del "papello" con le richieste dei boss, Antonio Subranni all'epoca capo di Mori. A giudizio era finito anche l'ex ministro Nicola Mancino ma solo per falsa testimonianza. Sarà assolto. Tra gli accusati c'era anche l'ex ministro Calogero Mannino dal quale tutto sarebbe partito: per l'accusa avrebbe innescato proprio lui la "trattativa" dopo avere ricevuto pesanti minacce dalla mafia. Mannino è però uscito di scena: ha scelto il rito abbreviato ed è stato assolto definitivamente in Cassazione l'11 dicembre 2020. E' una sentenza che ha messo in discussione l'impianto del processo, come dicono ora anche i giudici di appello.

In primo grado il dibattimento, presieduto da Alfredo Montalto, era cominciato il 27 maggio 2013 e si era concluso con condanne molto severe il 20 aprile 2018, quando Riina e Provenzano erano già morti. La pena più grave - ben 28 anni - era andata a Bagarella. E poi 12 anni per Mori, Subranni, Dell'Utri e Cina', 8 per De Donno. La condanna a 8 anni di Ciancimino (calunnia) è già prescritta. Prescritte anche le accuse a Brusca. Per i giudici di primo grado la "trattativa" dunque ci fu ed era illegittima perché protagonisti erano uomini delle istituzioni e soggetti che "rappresentavano l'intera associazione mafiosa". Su questa tesi accusa e difesa hanno ingaggiato nel giudizio di appello, cominciato il 29 aprile 2019, un confronto molto serrato. E stavolta il verdetto è ribaltato. C'erano le minacce della mafia ma non la "trattativa".



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