Un semplice incidente di Jafar Panahi, trama e recensione del film vincitore della Palma d’oro 2025 a Cannes

Un semplice incidente di Jafar Panahi, trama e recensione del film vincitore della Palma d’oro 2025 a Cannes

Un semplice incidente di Jafar Panahi, trama e recensione del film vincitore della Palma d’oro 2025 a Cannes Photo Credit: Lucky Red


In uscita nelle sale italiane il prossimo 6 novembre, il film è stato presentato anche alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Best Of

Un film minimo che si dilata fino a toccare l’universale. Il ritorno di Jafar Panahi è un altro piccolo miracolo.

Un semplice incidente, vincitore della Palma d’Oro a Cannes e ora presentato nella sezione “Best Of” della Festa del Cinema di Roma, conferma la capacità del regista iraniano di unire semplicità e profondità in un gesto cinematografico limpido, coraggioso e umanissimo.

UN SEMPLICE INCIDENTE, LA TRAMA

In uscita nelle sale italiane il prossimo 6 novembre, la pellicola inizia quando Rashid, tornando a casa con la moglie incinta e la figlia, investe un cane con la sua auto, danneggiandola.

L'incidente lo costringe a fermarsi e a chiedere aiuto in un'officina vicina, dove il meccanico Vahid crede di riconoscerlo come "Gambadilegno", un torturatore politico che lo ha abusato in passato.

Innescata da questo sospetto, la trama si sviluppa in un road movie thriller, in cui Vahid rapisce Rashid e si mette alla ricerca di altre presunte vittime per avere conferma, ma i loro ricordi frammentati portano a dubbi e la situazione si complica.

UN SEMPLICE INCIDENTE, LA RECENSIONE

C’è un paradosso meraviglioso nel cinema di Jafar Panahi: più sceglie la via della semplicità, più il suo sguardo diventa immenso. Il cineasta parte sempre da ciò che pare irrilevante, un gesto quotidiano, un fatto di cronaca, un piccolo errore, e lo trasforma in una domanda morale che non ammette scampo.

Stavolta l’innesco è un banale incidente notturno da cui prende forma un dramma di proporzioni gigantesche. È in questa zona grigia, dove il bene e il male si sfiorano senza mai confondersi, che il cinema di Panahi ritrova la sua voce più potente.

L’azione è ridotta all’osso, ma le conseguenze si moltiplicano. Ogni sguardo pesa come una scelta, ogni silenzio diventa parola. I personaggi discutono, ricordano, esitano: punire o perdonare? reagire o comprendere? La violenza non è solo quella inflitta da un regime, ma quella che ciascuno scopre dentro di sé, nascosta sotto la pelle.

Il ritorno di Panahi è un nuovo miracolo di sobrietà e complessità intrecciate. Nessuno come lui sa accendere la grandezza nelle piccole cose, far scaturire pensiero politico da un dialogo in un’auto, da una pausa tra due respiri. In un tempo in cui il mondo intero sembra ripiegare verso nuove forme di autoritarismo, Un semplice incidente diventa un film necessario: chiede cosa resta della nostra coscienza quando la paura diventa abitudine, quando la giustizia si piega al compromesso.

La pellicola si diverte, con un’ironia sottile e mai compiaciuta, a essere una rilettura contemporanea di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Come nel capolavoro teatrale, anche qui i personaggi vivono in una sospensione perpetua, in un tempo che non scorre davvero, nell’attesa di un evento che non arriva mai o di una decisione che nessuno ha il coraggio di prendere.

Panahi trasforma l’assurdo beckettiano in una dimensione concreta, terrena: l’attesa non è più metafisica, ma morale e politica. Dentro un van che diventa il palcoscenico del dubbio, i protagonisti discutono, si contraddicono, si logorano nel tentativo di dare un senso alle proprie azioni, come se la ricerca di giustizia fosse il loro personale “Godot” che non giunge mai. In questo modo, il regista iraniano rilegge Beckett con la leggerezza di chi conosce la tragedia, trasformando l’attesa in gesto di resistenza e l’immobilità in un atto di profonda libertà.

Girato quasi in clandestinità, con mezzi minimi ma un rigore assoluto, il film è insieme il più politico e il più intimo di Panahi. Il regista costruisce un racconto dove la morale è un bivio, la verità un labirinto, il dubbio un atto di libertà.

La prima e l’ultima scena, due gemme speculari, due sospensioni piene di silenzio, racchiudono tutta la sua arte: la capacità di rendere gigantesco ciò che è minuscolo, di trovare nel non detto la misura del mondo. Nel primo fotogramma c’è la quiete che precede la ferita; nell’ultimo, una calma che non consola. E quando le luci si riaccendono, si ha la sensazione che il film non finisca davvero.

Resta addosso come un pensiero ostinato, un bruciore lieve ma inestinguibile. Perché Panahi, con la sua discrezione, ci insegna ancora una volta che la grandezza del cinema non sta nel clamore, ma nella trasparenza.

Bastano un’auto ferma nella notte, un volto esitante, un silenzio sospeso, e l’universo intero torna a muoversi.



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