Il giallo della morte di Kurt Cobain, quel fucile senza impronte e un testamento scomodo

Il giallo della morte di Kurt Cobain, quel fucile senza impronte e un testamento scomodo

Il giallo della morte di Kurt Cobain, quel fucile senza impronte e un testamento scomodo


L’8 aprile 1994 fu ritrovato il cadavere del leader dei Nirvana. Un caso archiviato come suicidio dagli inquirenti. Ma i dubbi sulla vicenda non sono mai stati chiariti. A partire dal ruolo della moglie, la star del rock in rosa Courtney Love

Quando Gary Smith, tecnico della Veca Electronics, bussò alla lussuosa residenza al 171 del Lake Washington Boulevard, non trovò nessuno. O meglio, il padrone di casa c’era. Ma era morto. Il decesso, accertò l’autopsia, era avvenuto tre giorni prima, il 5 aprile 1994. Stando ai rapporti della polizia, il leader dei Nirvana Kurt Cobain si era suicidato sparandosi in bocca con un fucile Remington calibro 20, aveva ingerito Valium in dosi non terapeutiche, e si era iniettato eroina sufficiente per una tripla overdose. Eppure, la “Crime scene” non ha mai convinto i complottisti.


L’ARMA E LA LETTERA

Il Remington era poggiato sul braccio sinistro, senza impronte e in una collocazione innaturale per una persona che si sia fatta appena saltare la testa. Per non parlare della lettera d’addio, divisa in due parti. Nella prima, Cobain scrive in modo coerente. Si rivolge all’amico immaginario “Boddah”, confidandogli la sua crisi di artista rock pressato dal successo. Sembra più un commiato all’industria musicale e alla sua Seattle, che non una rinuncia alla vita. Ma subito, nella seconda metà della lettera, la scrittura si fa nevrotica, confusa: Kurt scrive alla moglie Courtney Love (attrice e cantante della band delle Hole) e chiede protezione per l’amatissima figlioletta Frances Bean. La chiosa è leggendaria: “Meglio bruciare che svanire lentamente”, verso di una canzone che Neil Young aveva dedicato a Johnny Rotten dei Sex Pistols.


L'INVESTIGATORE PRIVATO E UN'ALTRA MORTE SOSPETTA

Courtney assolda un detective, Tom Grant, per fare chiarezza sulla vicenda. Lei è al di sopra di ogni sospetto: non era stata forse la Love a salvare Kurt un mese prima a Roma, dopo una notte selvaggia a base di Roipnol e champagne all’Excelsior? Courtney aveva chiamato l’ambulanza, Cobain era stato trasportato all’Umberto I e da lì all’American Hospital. Tornati oltreoceano, la consorte lo aveva indotto a disintossicarsi in una struttura di Los Angeles, da cui l’autore di “Smells like teen spirit” era subito fuggito scavalcando il muro di cinta. Due giorni di vagabondaggio a Seattle, infine la tragica scomparsa. Ma Grant scoprì che Kurt aveva stilato un testamento che escludeva la moglie, da cui intendeva divorziare, dall’asse ereditario. E qualcuno notò strane somiglianze tra la calligrafia della donna e quella delle frasi finali della lettera d’addio. Non bastasse, nel 1998 un bizzarro personaggio, Eldon Hoke dei Mentors, sostenne nelle riprese di un documentario di aver ricevuto 50mila dollari per uccidere Cobain. Non specificò chi fosse il mandante. Pochi giorni più tardi Hoke morì, travolto sui binari da un treno. Senza fare in tempo a pronunciare quel nome.



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