Festa del Cinema di Roma 2025, “40 secondi”, di Vincenzo Alfieri: trama e recensione del film in Concorso
Festa del Cinema di Roma 2025, “40 secondi”, di Vincenzo Alfieri: trama e recensione del film in Concorso
17 ottobre 2025, ore 20:22
Ispirato a una vicenda reale, il film racconta le ultime ventiquattro ore di Willy Monteiro Duarte, ucciso a Colleferro nel settembre 2020
Ci sono film che sfiorano il dolore con dolcezza, tentando di trasformarlo in racconto. E poi c’è 40 secondi, di Vincenzo Alfieri, presentato nel Concorso Progressive Cinema della Festa del Cinema di Roma. Un film che il dolore lo afferra a mani nude e lo scaglia contro lo spettatore, senza filtri, senza scampo. Un cazzotto duro nello stomaco e nell’anima di chiunque lo guardi. La pellicola, uscirà nelle sale il prossimo 19 novembre.
40 SECONDI, LA TRAMA
Ispirato a una vicenda reale che ha sconvolto l’Italia, il film racconta le ultime ventiquattro ore di Willy Monteiro Duarte(Justin De Vivo), un ragazzo capoverdiano di ventuno anni brutalmente ucciso a Colleferro nella notte tra il 5 e il 6 settembre 2020. Willy perde la vita dopo essere intervenuto per difendere un amico durante una lite: un gesto di coraggio e altruismo spezzato in pochi, terribili secondi. Attraverso una narrazione intensa e corale, il film ricostruisce gli eventi che precedono la tragedia, intrecciando storie quotidiane, tensioni latenti e orgogli feriti che, in un crescendo di violenza e disumanità, conducono all’inevitabile epilogo.
40 SECONDI, LA RECENSIONE
Alfieri sceglie di raccontare la vicenda con la crudezza della realtà e il pudore della verità. Nessuna ricerca di redenzione, nessuna carezza estetica, nessuna consolazione. Il regista rinuncia deliberatamente a qualsiasi scorciatoia emotiva per restituire una cronaca che si fa parabola amara dell’Italia di oggi. Il ragazzo dai pantaloni rosa, il “film cugino” prodotto dallo stesso Roberto Proia per Eagle Pictures, cercava la luce nei margini dell’oscurità, qui Alfieri compie il percorso inverso. Niente colori che sfumano, niente vitalità che si dissolve: 40 secondi parte già dal buio e vi rimane, scavando nel fango morale di una provincia dove la giovinezza si trasforma in una giungla di rabbia, paura e smarrimento. Tutto è duro, tagliente, spigoloso, ruvido, sporco. Il contesto pandemico non è un semplice fondale: nel 2020 le mascherine sono ovunque, ma non tutti le indossano. Alfieri le trasforma in un dispositivo narrativo, una chiave per leggere i volti e i comportamenti dei personaggi. Chi le porta e chi le rifiuta diventa metafora di un Paese sospeso tra responsabilità e negazione, tra l’urgenza di proteggersi e la voglia di fingere che nulla stia accadendo. La provincia di 40 secondi è una suburra morale più che geografica: un microcosmo di ragazzi e adulti intrappolati in un’umanità disumana, dove regna il marcio e la sopraffazione è lingua quotidiana. Giovani che vogliono divorarsi la vita e, insieme, temono di esserne divorati. Alfieri li osserva senza giudizio ma con spietata lucidità, restituendo dialoghi, gesti, posture di un’adolescenza che ha perso il senso del limite. E poi c’è Willy. Non lo vediamo da subito: la sua presenza aleggia, come una promessa e una ferita. Quando finalmente appare, il film smette di essere un racconto per diventare un atto d’accusa. Non contro qualcuno, ma contro un sistema di indifferenza che si è fatto costume. 40 secondi non consola. È cinema che ferisce, che costringe a guardare dentro le crepe di una società dove la violenza non è l’eccezione ma la regola sottaciuta. Alfieri restituisce al silenzio di un Paese un grido disperato che non può essere ignorato.



